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La chiave per curare la malattia di Lyme potrebbe celarsi nella parete cellulare del batterio

By Stefania Romano
Published 14 Maggio 2025
3 Min Read
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Una struttura batterica unica potrebbe spiegare i sintomi cronici della Lyme

La malattia di Lyme, causata dal batterio Borrelia burgdorferi e trasmessa dalle zecche, continua a sfidare la medicina moderna, soprattutto per la sua capacità di lasciare sintomi persistenti anche dopo trattamenti antibiotici. La ricerca si sta ora concentrando su un aspetto finora poco considerato: la parete cellulare insolita di questo microrganismo.

 

Il peptidoglicano, componente strutturale fondamentale della parete di molti batteri, è risultato particolarmente anormale nel caso della Borrelia. Studi pubblicati il 23 aprile su Science Translational Medicine hanno scoperto che i frammenti di questa parete possono rimanere nei tessuti anche dopo la morte del batterio, suscitando reazioni immunitarie che ricordano quelle osservate nel long COVID.

 

Persistenza dei frammenti batterici: un collegamento con la sindrome post-trattamento

Ogni anno, tra 90.000 e 500.000 persone ricevono una diagnosi di malattia di Lyme solo negli Stati Uniti. Di queste, almeno il 15% sviluppa sintomi cronici — una condizione nota come PTLDS (sindrome post-trattamento della malattia di Lyme). Il mistero su cosa provochi questa persistenza si sta forse diradando: un precedente studio aveva già mostrato che frammenti di peptidoglicano sopravvivevano nel liquido articolare di pazienti con artrite di Lyme post-infettiva.

 

Ora, uno degli ultimi studi ha rilevato che nei topi infettati, questi frammenti si accumulavano nel fegato per settimane o mesi, suggerendo che il corpo non riesce a smaltirli. Questo “residuo” microbico potrebbe alimentare una risposta infiammatoria cronica, spiegando i sintomi duraturi anche in assenza del patogeno vivo.

 

Piperacillina: un antibiotico mirato al cuore del problema

Il secondo studio ha individuato un possibile alleato nella lotta contro la malattia: la piperacillina, un antibiotico parente della penicillina già approvato dalla FDA per uso umano. La molecola ha dimostrato la capacità di interferire con la sintesi del peptidoglicano, bloccando la divisione cellulare del batterio e impedendo nuove infezioni.

 

Nei test su modelli murini, una dose bassa di piperacillina si è rivelata efficace contro B. burgdorferi, con l’ulteriore vantaggio di preservare il microbioma intestinale, al contrario della doxiciclina, attuale trattamento standard che può fallire fino nel 20% dei casi e provocare effetti collaterali importanti.

 

Il futuro del trattamento: efficace ma invasivo

Nonostante l’entusiasmo, la piperacillina viene somministrata per iniezione, rendendone l’adozione più complessa. Molti pazienti evitano i trattamenti iniettabili, rendendo la sua diffusione più difficile rispetto alla più comoda doxiciclina orale.

 

Il microbiologo Jonathan Jutras, coautore degli studi, ha espresso l’auspicio che il farmaco possa essere somministrato immediatamente dopo un morso di zecca, in particolare per soggetti a rischio elevato. Secondo lui, la comprensione della biologia interna della Borrelia è cruciale: solo comprendendo cosa rende questo batterio diverso si potrà davvero trattare con successo la malattia di Lyme.

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