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Ridurre l’età bioenergetica abbassa il rischio di Alzheimer

By Stefania Romano
Published 29 Marzo 2025
3 Min Read
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Il rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer non è scritto interamente nel codice genetico né scandito solo dallo scorrere del tempo. Una nuova ricerca pubblicata su Nature Communications apre la strada a un approccio rivoluzionario: la valutazione dell’età bioenergetica, un indicatore legato all’efficienza con cui le cellule umane producono energia.

 

Secondo gli scienziati del Weill Cornell Medicine, guidati dal fisiologo Jan Krumsiek, l’età bioenergetica può divergere significativamente da quella anagrafica. Questo parametro, influenzato in parte dalla genetica, ma anche dalle abitudini di vita, rappresenta quanto “giovane” appaia il metabolismo cellulare. Migliorarla potrebbe rallentare l’avanzata dell’Alzheimer tanto quanto il lecanemab, un farmaco approvato per la cura della malattia.

 

Durante lo studio, i ricercatori hanno identificato una connessione tra età bioenergetica e progressione del declino cognitivo. I dati emersi dall’Alzheimer’s Disease Neuroimaging Initiative (ADNI) dimostrano che individui con livelli elevati di acilcarnitina nel sangue – metaboliti derivati dagli acidi grassi – tendono ad avere una patologia più avanzata e un calo cognitivo più rapido. Al contrario, bassi livelli di acilcarnitina sono associati a un rallentamento della perdita delle funzioni cognitive, con una differenza annuale pari a mezzo punto in meno nei test cognitivi standard.

 

Questa distinzione ha permesso ai ricercatori di identificare soggetti con una “resilienza bioenergetica”, in grado di mantenere una buona salute mentale anche in presenza di segni patologici legati all’Alzheimer. In questi casi, le cellule cerebrali continuano a generare energia con una buona efficienza, riducendo l’impatto delle alterazioni tipiche della malattia.

 

Un punto di svolta riguarda la possibilità di misurare facilmente l’età bioenergetica. I test attualmente utilizzati per individuare disturbi metabolici nei neonati, infatti, si rivelano efficaci anche negli adulti per valutare i livelli di acilcarnitina. Questo approccio potrebbe diventare uno strumento diagnostico accessibile per avviare trattamenti personalizzati, prima ancora della comparsa dei sintomi.

 

L’aspetto più interessante dello studio riguarda la malleabilità dell’età bioenergetica. Attraverso modifiche nello stile di vita, come l’aumento dell’attività fisica o una migliore alimentazione, alcune persone possono abbassare significativamente questo indicatore e, di conseguenza, ridurre il rischio di sviluppare l’Alzheimer.

 

I risultati suggeriscono che interventi mirati potrebbero essere particolarmente efficaci in soggetti con una predisposizione genetica favorevole ma un’età bioenergetica elevata. Si stima che il 30% dei partecipanti allo studio rientri in questa categoria, aprendo la strada a nuove strategie di prevenzione basate sulla metabolica cellulare piuttosto che su trattamenti farmacologici.

 

Il prossimo passo, sottolineano gli autori, sarà identificare quali interventi siano più efficaci nel ridurre l’età bioenergetica, ampliando le possibilità di prevenzione e gestione precoce del morbo di Alzheimer.

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