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Come il cervello distingue il pericolo reale dalla paura immotivata

By Paola Belli
Published 21 Marzo 2025
5 Min Read
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Contents
La paura innata e l’apprendimento cerebraleLa mappatura dei circuiti neuraliIl ruolo inaspettato del vLGNQuando la paura non si spegnePossibili interventi sul cervello

Quando gli atleti si schierano ai blocchi di partenza, l’attesa della folla si fa silenziosa, interrotta soltanto dal rumore secco di una pistola da gara. Questo suono, pur somigliando a un vero sparo, non provoca panico. La folla esplode in un boato e l’attenzione si sposta subito sulla competizione. Il cervello umano, in questi casi, riconosce rapidamente la differenza tra un segnale innocuo e un pericolo autentico, disinnescando la reazione di paura. Ma in che modo il nostro cervello sa quando ignorare un rumore improvviso e quando, invece, allertarsi per una minaccia reale?

Una recente ricerca pubblicata nel 2025 su Science ha rivelato il funzionamento di questo meccanismo nel cervello degli animali, gettando luce su processi che potrebbero rivelarsi fondamentali per comprendere disturbi come l’ansia, le fobie e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

La paura innata e l’apprendimento cerebrale

Gli esseri umani nascono con paure istintive, come quella dei suoni forti. Tali reazioni sono utili in presenza di veri pericoli, ma quando lo stimolo si rivela innocuo, il cervello deve essere in grado di adattarsi e spegnere la risposta emotiva. Secondo Sara Mederos, autrice principale dello studio e ricercatrice del Hofer Lab presso il Sainsbury Wellcome Centre dell’University College London, un esempio tipico è la reazione dei neonati ai fuochi d’artificio. Nei primi mesi di vita, rumori forti e imprevedibili provocano pianti e spavento. Con il tempo e l’esposizione ripetuta, tuttavia, si impara che quel suono non è pericoloso, trasformandolo in un’esperienza piacevole.

La mappatura dei circuiti neurali

Per comprendere come avvenga questo processo, il team di Mederos ha analizzato i circuiti cerebrali dei topi, animali che mostrano comportamenti difensivi ben documentati di fronte a minacce visive. I topi non hanno espressioni facciali, il che rende più semplice interpretarne le reazioni comportamentali. In laboratorio, gli studiosi hanno proiettato sopra le cavie un’ombra simile a quella di un predatore in volo. La risposta immediata dei topi è stata di congelamento o fuga verso un rifugio. Tuttavia, dopo diverse esposizioni all’ombra senza conseguenze, i roditori hanno smesso di scappare, dimostrando di aver imparato che lo stimolo non rappresentava un pericolo reale.

 

I ricercatori hanno esaminato cosa accadeva nel cervello dei topi durante questo processo di apprendimento. La sorpresa più grande è stata scoprire che il ruolo delle aree visive superiori della corteccia cerebrale è limitato all’inizio. Una volta appresa la sicurezza dello stimolo, la memoria non veniva più gestita da queste zone corticali, ma veniva archiviata in una struttura subcorticale: il nucleo genicolato ventrolaterale (vLGN).

Il ruolo inaspettato del vLGN

Secondo Mederos, questa scoperta è sorprendente, perché la plasticità neuronale è stata storicamente osservata in aree corticali come l’ippocampo. La capacità del cervello di archiviare il ricordo di una paura superata in una regione subcorticale come il vLGN apre nuove strade alla comprensione dei meccanismi di regolazione della paura.

Il circuito identificato nel cervello dei topi esiste anche nell’uomo. Questo suggerisce che meccanismi simili possano influenzare il modo in cui le persone imparano a gestire ansia e reazioni eccessive di paura. Per la maggior parte delle persone, questo processo avviene naturalmente grazie all’esposizione ripetuta agli stimoli.

Quando la paura non si spegne

Nei soggetti affetti da ansia cronica, fobie o PTSD, il circuito cerebrale non riesce ad adattarsi. Queste persone continuano a reagire a stimoli innocui come se fossero minacce reali. Mederos spiega che nel caso del PTSD, per esempio, un trauma passato può provocare una risposta di paura generalizzata anche di fronte a situazioni quotidiane che non rappresentano alcun pericolo.

Possibili interventi sul cervello

Secondo la ricercatrice, le future terapie potrebbero concentrarsi proprio sul vLGN per aiutare i pazienti a modulare le risposte eccessive. Si parla di tecniche come la stimolazione cerebrale profonda, l’uso di ultrasuoni focalizzati o trattamenti farmacologici mirati a regolare la trasmissione degli endocannabinoidi. Ripristinare il corretto funzionamento di questo circuito potrebbe aiutare le persone a gestire meglio l’ansia, sopprimere reazioni esagerate e migliorare la qualità della vita.

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