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Come fanno le foche a trattenere il respiro per oltre un’ora? Il segreto evolutivo degli specialisti dell’apnea

By Stefania Romano
Published 26 Marzo 2025
4 Min Read
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Negli abissi marini, dove l’ossigeno scarseggia e la sopravvivenza dipende dalla capacità di restare sott’acqua senza respirare, le foche hanno sviluppato un meccanismo biologico straordinario. Mentre l’essere umano medio non riesce a trattenere il fiato per più di un minuto e mezzo, questi mammiferi possono rimanere in apnea per oltre sessanta minuti, dimostrando un adattamento fisiologico avanzatissimo che affascina scienziati e appassionati del mondo animale.

 

Le immersioni delle foche sfidano la biologia umana

Nel corpo umano, la spinta a riprendere fiato è innescata dall’aumento di anidride carbonica (CO2) nel sangue, non dalla carenza di ossigeno. Il cervello umano, infatti, non è in grado di percepire direttamente i livelli di ossigeno, ma reagisce all’accumulo di CO2 come segnale d’allarme. Questo meccanismo, sebbene efficace per una vita sulla terraferma, si rivela limitante quando si tenta di prolungare l’apnea in profondità. Gli apneisti professionisti, pur spingendosi oltre i limiti ordinari, non sono immuni da svenimenti causati da ipossia, perché i loro corpi non riescono a rilevare per tempo la carenza di ossigeno.

 

Le foche, invece, sfuggono a questa trappola fisiologica. Un team di ricerca dell’Università di St. Andrews, in Scozia, ha scoperto che questi mammiferi marini sono dotati di un sistema sensoriale unico, capace di monitorare direttamente i livelli di ossigeno presenti nel sangue.

 

Una sperimentazione con giovani foche grigie

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno addestrato sei foche grigie selvatiche (Halichoerus grypus) presso l’Unità di Ricerca sui Mammiferi Marini. Gli animali sono stati coinvolti in una simulazione controllata di foraggiamento: nuotavano tra una camera respiratoria e una stazione di alimentazione subacquea, mentre venivano modificati i livelli di ossigeno e CO2 nell’aria respirata.

 

I risultati hanno ribaltato le convinzioni precedenti: le immersioni delle foche erano direttamente influenzate dai livelli di ossigeno, mentre l’anidride carbonica non sembrava avere alcun ruolo determinante. Anche quando la CO2 era presente in concentrazioni superiori rispetto all’ambiente naturale, la durata delle immersioni non cambiava. Al contrario, la variazione dei livelli di ossigeno provocava un adattamento immediato nel comportamento subacqueo.

 

Un cervello che legge l’ossigeno: l’asso nella pinna delle foche

Questo studio dimostra che le foche non si affidano alla CO2 come meccanismo di allerta, ma possiedono un sistema sensoriale evoluto che consente loro di sapere esattamente quanto ossigeno è ancora disponibile nel corpo. Questo vantaggio le mette al riparo da svenimenti improvvisi, evitando situazioni potenzialmente fatali durante le immersioni. Come spiegato dal primo autore dello studio, l’evoluzione non avrebbe permesso la sopravvivenza di animali soggetti a blackout improvvisi nelle profondità marine. In un ambiente dove l’ossigeno è una risorsa scarsa e preziosa, la capacità di monitorarne con precisione la presenza diventa fondamentale per la sopravvivenza.

 

Un adattamento condiviso da altri mammiferi marini?

Secondo i ricercatori, questo meccanismo potrebbe non essere esclusivo delle foche. Altre specie di mammiferi marini, come balene, delfini e trichechi, potrebbero aver sviluppato strategie simili per affrontare le sfide dell’immersione prolungata. Questo tipo di adattamento, noto come evoluzione convergente, emerge quando specie diverse sviluppano soluzioni simili a problemi ambientali comuni.

 

In questo scenario, le foche grigie del Mare del Nord rappresentano solo un tassello di un più vasto mosaico biologico, che racconta l’incredibile plasticità evolutiva degli abitanti degli oceani.

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