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Il legame tra COVID-19 e ME/CFS: rischio otto volte maggiore per chi ha avuto il virus

By Sabrina Verdi
Published 29 Marzo 2025
5 Min Read
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Contents
Un’ondata silenziosa di malattia cronica dopo il COVID-19Cos’è la ME/CFS e perché è così difficile da diagnosticareDati dello studio: un aumento allarmante dei casiI sintomi più comuni: affaticamento, vertigini e “nebbia mentale”Un’urgenza sanitaria ancora sottovalutataLa necessità di ulteriori studi e strategie di prevenzione

Un’ondata silenziosa di malattia cronica dopo il COVID-19

A cinque anni dallo scoppio della pandemia, il COVID-19 continua a lasciare un’impronta indelebile sulla salute globale, e non solo per le infezioni acute. Un nuovo studio segnala che le persone che hanno contratto il virus hanno quasi otto volte più probabilità di sviluppare la ME/CFS, ovvero la sindrome da fatica cronica. I dati emergono da una vasta analisi condotta su oltre 13.000 individui, nell’ambito dell’iniziativa statunitense RECOVER, focalizzata sullo studio del long COVID.

I risultati rivelano un legame profondo tra il virus e una condizione che per decenni è stata sottovalutata: l’encefalomielite mialgica/sindrome da fatica cronica (ME/CFS). Una malattia debilitante, spesso mal diagnosticata, ora riemerge sotto i riflettori grazie alla somiglianza con le forme persistenti di COVID-19.

Cos’è la ME/CFS e perché è così difficile da diagnosticare

La ME/CFS è una condizione cronica e multisistemica caratterizzata da un’estrema spossatezza, difficoltà cognitive, vertigini e soprattutto malessere post-sforzo, ovvero un peggioramento dei sintomi dopo attività anche minime. I sintomi possono manifestarsi anche mesi dopo una banale infezione virale, e persistere per anni.

Ciò che rende la ME/CFS particolarmente insidiosa è la difficoltà di diagnosi, spesso basata su sintomi soggettivi riferiti dai pazienti e ancora priva di un test univoco. Nonostante sia stata riconosciuta come malattia biologica, continua a portare con sé uno stigma sociale e sanitario che ne rallenta il riconoscimento e la cura.

Dati dello studio: un aumento allarmante dei casi

L’analisi ha incluso 11.785 partecipanti che avevano contratto il COVID-19 e 1.439 non infetti, monitorati per almeno sei mesi dopo la malattia. È emerso che il 4,5% degli ex positivi soddisfaceva i criteri clinici per la ME/CFS, rispetto a solo lo 0,6% del gruppo di controllo.

Ma c’è di più: quasi il 90% dei nuovi casi di ME/CFS era composto da individui già classificati come affetti da long COVID con sintomi persistenti. Questo conferma la stretta connessione tra long COVID e ME/CFS, due condizioni che potrebbero condividere meccanismi fisiopatologici simili.

I sintomi più comuni: affaticamento, vertigini e “nebbia mentale”

Tra i sintomi più frequentemente riportati:

  • Malessere post-sforzo: peggioramento dei sintomi dopo uno sforzo anche minimo
  • Intolleranza ortostatica: sensazione di vertigine o instabilità in posizione eretta
  • Compromissione cognitiva: difficoltà di concentrazione, memoria e chiarezza mentale (la cosiddetta nebbia mentale)

Questi sintomi non solo compromettono la qualità della vita, ma spesso portano all’incapacità lavorativa o addirittura alla necessità di assistenza quotidiana. Secondo i dati del CDC americano, circa un quarto dei pazienti con ME/CFS è costretto a letto durante le fasi più gravi della malattia.

Un’urgenza sanitaria ancora sottovalutata

Ciò che rende questi dati ancora più preoccupanti è che la ME/CFS non è una novità. È una malattia nota da decenni, ma frequentemente ignorata dal sistema sanitario e vissuta dai pazienti come un percorso ad ostacoli tra diagnosi mancate, trattamenti inefficaci e stigmatizzazione.

Ora, l’ondata di casi post-COVID costringe la medicina a riconsiderare l’urgenza della condizione. Secondo i ricercatori coinvolti nello studio, una diagnosi precoce accompagnata da un’adeguata gestione clinica potrebbe fare la differenza, migliorando notevolmente la qualità della vita di migliaia di persone.

La necessità di ulteriori studi e strategie di prevenzione

Se da un lato lo studio rappresenta un passo avanti importante, dall’altro apre nuovi interrogativi. Perché solo alcuni individui sviluppano la ME/CFS dopo il COVID? Esistono fattori genetici o immunitari che predispongono a questa evoluzione?

Capire chi è più a rischio, e come intervenire in tempo, sarà il prossimo grande obiettivo della ricerca. Servono investimenti nella formazione dei medici, protocolli condivisi per la diagnosi precoce e strategie di assistenza multidisciplinare. Anche la sensibilizzazione dell’opinione pubblica può giocare un ruolo fondamentale nel combattere lo stigma e creare consapevolezza.

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