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I Moa estinti della Nuova Zelanda si nutrivano di funghi viola simili ai tartufi, rivelano resti fossili

By Sabrina Verdi
Published 10 Febbraio 2025
4 Min Read
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Contents
Il DNA antico svela il ruolo degli uccelli giganti nella diffusione di funghi cruciali per la salute delle foresteUn fungo evoluto per attirare gli uccelliUn ecosistema senza mammiferi terrestriIl DNA fossile rivela una dieta ricca di funghiUn fenomeno diffuso anche in PatagoniaLa scomparsa dei Moa e il futuro delle foreste neozelandesi

Il DNA antico svela il ruolo degli uccelli giganti nella diffusione di funghi cruciali per la salute delle foreste

Gli antichi Moa, enormi uccelli incapaci di volare, si nutrivano di un fungo viola simile a un tartufo, diffondendone le spore attraverso i loro escrementi. Le analisi genetiche condotte su coproliti fossilizzati hanno permesso di identificare le specie fungine che facevano parte della loro dieta, fornendo nuove informazioni sugli ecosistemi della Nuova Zelanda preistorica.

Un fungo evoluto per attirare gli uccelli

Le spore rinvenute negli escrementi fossili appartengono a una specie chiamata Gallacea scleroderma, che presentava corpi fruttiferi viola e tondeggianti, simili a bacche. Questo suggerisce che il fungo si fosse evoluto per essere particolarmente appetibile ai Moa, che ne favorivano la dispersione attraverso il transito intestinale. Secondo il paleoecologo Alex Boast di Manaaki Whenua–Landcare Research, essere ingeriti da un uccello rappresentava un vantaggio evolutivo per i funghi rispetto alla semplice diffusione delle spore nell’aria.

Boast e il suo team, in uno studio pubblicato su Biology Letters, spiegano che i funghi trasportati dai Moa venivano escreti in un substrato ricco di nutrienti, garantendo migliori possibilità di attecchimento e crescita.

Un ecosistema senza mammiferi terrestri

La Nuova Zelanda preistorica era caratterizzata dall’assenza di mammiferi terrestri, eccezion fatta per alcune specie di pipistrelli. I Moa occupavano la nicchia ecologica dei grandi erbivori, svolgendo un ruolo fondamentale nella dispersione di piante e funghi. Nove diverse specie di Moa, di varie dimensioni e con differenti abitudini alimentari, popolavano le isole prima dell’arrivo degli esseri umani intorno al 1300.

L’estinzione dei Moa, avvenuta in seguito alla colonizzazione umana, ha alterato profondamente l’ecosistema neozelandese. Tuttavia, i loro escrementi fossilizzati, conservati nelle grotte dell’Isola del Sud, rappresentano un’eccezionale fonte di informazioni sulla biodiversità del passato.

Il DNA fossile rivela una dieta ricca di funghi

I ricercatori hanno analizzato coproliti appartenenti al Moa di montagna (Megalapteryx didinus), utilizzandoli come veri e propri archivi biologici. Uno studio precedente, pubblicato nel 2018, aveva già individuato tracce di felci, muschi e funghi, ma l’affinamento delle tecniche di analisi ha permesso ora di identificare con maggiore precisione le specie fungine presenti.

Tra queste, spicca la Gallacea scleroderma, con il suo aspetto simile a un tartufo viola. In totale, i ricercatori hanno individuato 13 diverse varietà di funghi nei campioni analizzati.

Un fenomeno diffuso anche in Patagonia

L’ipotesi che i funghi abbiano sviluppato strategie per attirare uccelli erbivori non è limitata alla Nuova Zelanda. Il micologo Marcos Caiafa, dell’Università della Florida, ha riscontrato un fenomeno analogo in Patagonia, dove escrementi di uccelli locali contengono spore di funghi che avvolgono i loro corpi fruttiferi in una tonalità violacea.

La scomparsa dei Moa e il futuro delle foreste neozelandesi

I funghi identificati nei coproliti di Moa appartengono al gruppo degli ectomicorrizici (ECM), che vivono in simbiosi con le radici degli alberi. Questi funghi formano una rete sotterranea essenziale per la salute della foresta, facilitando l’assorbimento dell’acqua e dei nutrienti.

L’assenza dei Moa potrebbe aver compromesso la capacità di dispersione di questi funghi, riducendo la resilienza delle foreste neozelandesi. Con i rapidi cambiamenti ambientali in corso, la perdita di questi antichi meccanismi di propagazione potrebbe avere conseguenze ancora più profonde sugli ecosistemi attuali.

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