La sorprendente lentezza della rigenerazione umana
Le ferite negli esseri umani si rimarginano quasi tre volte più lentamente rispetto a quelle di altri mammiferi e primati non umani, un dato che smentisce il presunto primato biologico della nostra specie. A dimostrarlo è una ricerca condotta da Akiko Matsumoto-Oda, docente dell’Università delle Ryukyus in Giappone, che ha analizzato direttamente il comportamento dei babbuini in Kenya, notando come anche le ferite più profonde guarissero sorprendentemente in breve tempo.
Lo studio: il confronto tra uomo e altri primati
Per convalidare l’ipotesi, il team guidato da Matsumoto-Oda ha confrontato la velocità di cicatrizzazione in una varietà di mammiferi: ratti, topi, scimpanzé (Pan troglodytes), babbuini dell’Oliva (Papio anubis), cercopitechi verdi (Chlorocebus pygerythrus) e scimmie di Sykes (Cercopithecus albogularis). I dati clinici di 24 pazienti umani sottoposti a intervento di rimozione di tumori cutanei sono stati confrontati con ferite chirurgicamente indotte di 40 millimetri sugli animali e con lesioni naturali osservate su cinque scimpanzé in cattività.
Il risultato è stato chiaro: le ferite umane si rimarginano a una velocità di 0,25 millimetri al giorno, mentre gli altri primati – ma anche ratti e topi – mostrano una media di 0,61 millimetri al giorno. Questo divario suggerisce un cambiamento evolutivo esclusivo della nostra specie.
Un prezzo evolutivo per la pelle glabra
Secondo gli studiosi, l’evoluzione della nostra pelle, priva di pelliccia e ricca di ghiandole sudoripare, potrebbe aver comportato un aumento dello spessore cutaneo come meccanismo di protezione aggiuntivo. Questo strato più spesso, tuttavia, rallenta i processi rigenerativi, rendendoci più vulnerabili agli effetti di infezioni e lesioni debilitanti, soprattutto se localizzate in punti strategici come arti o apparato orale.
L’importanza del supporto sociale nella sopravvivenza umana
Un possibile compenso evolutivo alla lenta guarigione potrebbe essere rappresentato dal supporto sociale tra esseri umani. Le prove archeologiche lo confermano: un cranio di Homo erectus datato a 1,8 milioni di anni fa apparteneva a un individuo privo di denti, probabilmente nutrito e curato dal gruppo. Allo stesso modo, un Neanderthal con gravi lesioni e amputazioni ha vissuto fino alla mezza età, presumibilmente grazie all’aiuto della comunità.
Questa cooperazione sociale, unita all’uso di rimedi vegetali, avrebbe ridotto gli effetti negativi della lenta rigenerazione, offrendo un vantaggio adattativo alla nostra specie anche in condizioni biologiche sfavorevoli.
Prospettive future per la biologia evolutiva
Gli autori concludono che per comprendere a fondo i motivi alla base di questo ritardo nella guarigione sarà necessario un approccio interdisciplinare, integrando genetica, biologia cellulare, morfologia, dati fossili e osservazioni su primati viventi. La ricerca è stata pubblicata su Proceedings of the Royal Society B.